
Gore, splatter e catarsi nei nuovi media
Jacopo Miatton
Come la violenza esplicita purifica gli animi
Sono anni ormai che l’opinione pubblica (e politica) si trova divisa sulla questione scottante della rappresentazione della violenza nei videogiochi e più in generale nei media, siano essi appunto prodotti di gaming piuttosto che televisivi o cinematografici. Da Dario Argento a Tarantino, passando per la guerra virtuale di Call Of Duty (per citare il più noto) la rappresentazione grafica della violenza fisica con tanto di sangue a fiotti e smembramenti vari sembra essere un punto fermo per tanti registi e case di produzione.
Il dibattito pubblico però non si concentra sull’impatto visivo di tali contenuti – che può piacere o meno – ma verte l’attenzione sugli effetti psicologici che queste immagini hanno sui consumatori, sopratutto i più giovani. Va da sé che l’epicentro della discussione si trovi negli States, per la presenza delle maggiori case di produzione videoludiche e cinematografiche nel mondo. Secondo alcune schiere di politicanti infatti, la causa di alcune stragi avvenute negli Stati Uniti sarebbe proprio da ricercare nelle mattanze e carneficine su schermo (specialmente nei videogiochi). Riguardo alle sparatorie nelle scuole, alle stragi per strada e agli omicidi di massa appare incolpevole il II emendamento della Costituzione americana, che garantisce il diritto al porto d’armi per ogni cittadino americano (perlomeno nell’era Trump, mentre Obama ci aveva provato a modificarlo, subito placcato dalla lobbistica delle armi). L’argomento è stato trattato in lungo e in largo, le opinioni differiscono e gli studi danno sempre risultati diversi e perciò inconcludenti. Ma facciamo un passo indietro (anche due).
Quando non esistevano pellicole e videogames, l’intrattenimento per eccellenza era il teatro. Ora, nell’Amleto di Shakespeare, quattro dei personaggi principali muoiono accoltellati, una ragazza viene annegata, altri due poveretti subiscono la decapitazione. Un’altro esempio? Ne La tragedia di Tito Andronico, tra accoltellamenti e decapitazioni di routine, due giovani ragazzi vengono uccisi, cucinati e dati in pasto alla loro stessa madre. Potremo stare a parlare ore e ore di come violenza e omicidio facciano da sempre parte dell’intrattenimento per il grande pubblico, gli esempi sono infiniti e si possono pescare addirittura nelle tragedie greche, cinque secoli prima di Cristo.
“Non c’è alcuna prova di una correlazione fra l’aumento dei crimini e i videogiochi” Wired
Ciò che conta, ieri a teatro e oggi sugli schermi, nell’esagerazione dell’elemento gore, ( l’estremo realismo degli effetti speciali: sangue, lacerazione, interiora a volontà ) è la sua funzione catartica. Per il filosofo Aristotele, la catarsi (purificazione) che il pubblico sperimentava durante la visione della tragedia, non è altro che una liberazione dalle emozioni forti che occupano la psiche, uno sfogo dagli eccessi pulsionali che ci ricordano della nostra appartenenza al regno animale.
Giocare a videogiochi violenti e controversi, prendere visione di film immorali, non porta a emulare le azioni che sono proposte, ma a rendersi conto del fatto che esse non appartengano alla nostra realtà personale, che possono rimanere relegate al virtuale. Certo, devono essere spiegate e devono essere capite. Ma la gogna mediatica alla quale sono sottoposti videogiochi e media ogni giorno dovrà concludersi poiché (e qui chi vuol intendere, intenda) i capri espiatori sono lì apposta a nascondere qualcos’altro, più reale e preoccupante.