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Il right to repair: il nostro diritto di poter riparare i dispositivi che possediamo

Matteo Shots.it

Matteo Mario

Cos’è il right to repair? Sicuramente stiamo parlando di un concetto nato negli ultimi anni, da quando non solo il diffondersi dei dispositivi personali si è intensificato, ma anche il concetto di obsolescenza programmata. Di cosa si tratta?

Stiamo parlando del processo per cui un dispositivo elettronico, che sia esso uno smartphone, computer, tablet e elettrodomestico, dopo un paio di anni dall’acquisto o dal lancio sul mercato diventa praticamente inutilizzabile o si rompe per motivi semplici.

Attualmente, molti produttori e marchi preferiscono restringere le possibilità di riparazione di un dispositivo, rendendo unici i suoi pezzi di ricambio e non dando la possibilità ai consumatori di ripararlo autonomamente. Una pratica che ha infastidito molti e dal quale è nato, appunto, il concetto di right to repair.

Ci sono degli esempi lampanti che riguardano i codici, per esempio: ai tecnici indipendenti, quelli slegati dai grandi brand per intenderci, servono le stesse informazioni che si trovano all’interno dei laboratori del produttore. Veri e propri codici diagnostici che sono a disposizione di marchio e cittadino per poter riparare un dispositivo.

Questi codici, però, spesso hanno dei limiti per quanto riguarda il loro accesso da parte degli strumenti previsti. Un modo per limitare il raggio di azione (o di riparazione, anzi) dei riparatori che non appartengono alla filiera produttiva direttamente collegata all’azienda di riferimento.

Ecco perché, quindi, molti utenti si sentono in dovere di acquistare un dispositivo nuovo ogni due o tre anni, evitando appunto di muoversi autonomamente nella riparazione dei device ma puntando sull’acquisto di nuovi.

Leggi anche: Sostenibilità digitale, quando il nuovo paradigma coinvolge tutti: cittadini e istituzioni.

In questo contesto, però, l’Unione Europea si vuole muovere in maniera differente e provare ad unire il concetto di right to repair con quello di economia circolare, creando un sistema sostenibile e soprattutto volto agli interessi dei consumatori.

Ecco quindi che entra in gioco il diritto dei consumatori a poter aggiustare in autonomia ciò che è stato acquistato e che è quindi di loro proprietà, senza invece preoccuparsi di dover sottostare a rigide scelte delle case produttrici che portano i dispositivi a invecchiare in così poco tempo.

Sulla base di questa svolta ci sono vari dati che è giusto prendere in considerazione: oggi soltanto il 12% dei materiali viene reintrodotto nel ciclo produttivo. Tra questi, quelli più ingombranti sono sicuramente i rifiuti elettronici che se non vengono correttamente smaltiti (o riciclati), risultano essere tra i più dannosi per l’ambiente. Un esempio palese sono le AirPods, cuffie bluetooth di Apple, che dopo pochi anni vanno sostituite e impiegano davvero tanti decenni a smaltirsi.

Per questo motivo, continuando a sostituire dispositivi senza avere una pianificazione coerente della possibilità di riciclo o riutilizzo di un dispositivo, l’impressione è che si possano aggravare le possibilità di vedere finalmente l’economia circolare dare i suoi frutti. L’UE mira a rendere il right to repair, sia per motivi ambientali che legislativi, un concetto da affiancare a un vero e proprio stile di produzione sostenibile attraverso una serie di iniziative che dovrebbero concretizzarsi nel 2021.

L’obsolescenza programmata, ma soprattutto l’esclusività dei pezzi, hanno creato un mercato parallelo in cui la maggior parte dei dispositivi elettronici viene riparata esclusivamente dalle imprese produttrici o da negozi autorizzati. Rivolgersi a punti vendita non autorizzati porta invece ad avere parti di ricambio non ufficiali, con un prezzo di intervento più basso ma con più possibilità che quest’ultimo sia dannoso (nel lungo termine) per l’intero dispositivo.

Questo aspetto economico, che si unisce appunto a quello ambientale, ha portato l’Unione a introdurre nel Green Deal (concepito nel marzo 2020) il diritto alla riparazione, rendendolo parte di un più ampio pacchetto di politiche volte a promuovere una crescita economica più sostenibile e prevenire gli sprechi. La prima mossa è quella di imporre una produzione più sostenibile in ogni singolo Paese, rendendo per esempio la riparazione più abitudinaria.

Ma torniamo ad altri dati, per entrare ancora di più nel merito della questione: in Europa, meno del 40% dei rifiuti elettronici viene correttamente riciclato e l’intento della Commissione Europea è quello di aumentare la percentuale. Le misure del Green Deal saranno quindi di natura legislativa e le più importanti saranno rappresentate da direttive e regolamenti vincolanti per gli Stati membri.

Il right to repair, in realtà, è già in vigore ma solo per quanto riguarda le categorie degli elettrodomestici. Un passo in avanti, certo, che però non pone ancora una vera e propria svolta nei confronti del problema.

Ma cosa succede con il right to repair per questo tipo di prodotti, nel frattempo? Le aziende produttrici devono per legge rendere disponibili i pezzi di ricambio in un periodo di 7 anni dal lancio sul mercato di ogni nuovo elettrodomestico, tempo che aumenta a 10 anni per le lavatrici.

I benefici, come hanno spiegato gli stessi analisti della Commissione, sono di carattere ecologico, ma anche finanziario. L’iter legislativo, nonostante sia già previsto che tutto questo partirà a breve, non è ancora concluso e mancherebbe solo il voto del Parlamento Europeo. Una formalità che porterà comunque, da aprile 2021, l’Unione Europea a ufficializzare le misure che dovranno essere adottate dai Paesi membri.

Queste norme però rimangono tuttora poco chiare per chi si occupa di riparare questi dispositivi, tra professionisti autorizzati e non. Per esempio, i manuali e i pezzi di ricambio non saranno disponibili pubblicamente ma verranno distribuiti solo ai riparatori professionisti, eliminando di fatto la possibilità di fare riparazione con il supporto di privati.

C’è una conferma, però: a partire da quest’anno 2021le aziende produttrici dovranno offrire ai consumatori tutte le possibili alternative per permettere il diritto di riparazione, come per esempio la possibilità di intervenire sui prodotti con attrezzi convenzionali utilizzando dei comuni pezzi di ricambio che non danneggino l’apparecchio.

Come dicevamo prima, gli smartphone per ora non sono inclusi in questo raggio d’interventi, e per questo la Commissione sta prendendo in seria considerazione un regime che consentirebbe ai consumatori di riparare, vendere o restituire vecchi telefoni, tablet e caricabatterie migliorando quindi la situazione attuale.

Una scelta sicuramente ecologica, sostenibile e soprattutto circolare, che ha l’obiettivo di ridurre i rifiuti in sistemi di mercato in cui sono ancora decisamente numerosi. Per questo motivo, l’Unione Europea è molto cosciente del fatto che un grande numero di rifiuti non può essere smaltito del tutto e quindi è necessario renderlo una risorsa attraverso il riciclo o il riutilizzo, appunto. Oltre a questo, le stesse autorità europee sanno che un ulteriore vantaggio dell’attuare un piano per sostenere l’economia circolare sarebbe quello di rafforzare la sua identità nel mondo, almeno per quanto riguarda nuove opportunità commerciali e sfruttamento delle risorse. Un beneficio per tutti, perciò, cittadini e istituzioni.

Ma non è solo l’Unione Europea a trattare quotidianamente il concetto di right to repair, che si inserisce di diritto nel gruppo di discorsi relativi all’approccio sostenibile della nostra economia tecnologica: Monique Goyens, direttrice generale dell’Organizzazione europea dei consumatori, per esempio, sostiene che il piano d’azione sia cruciale per rendere la green-transition veramente concreta e applicabile alla realtà, senza decisioni campate in aria e inefficaci nel dettaglio. Un insieme di scelte che includerebbero anche un’informazione più completa nei confronti dei consumatori, che avrebbero di fronte a sé più alternative rispetto alla semplice scelta di buttare via il proprio telefono e acquistare la sua ultima generazione. Una via d’uscita semplice per noi, ma non per il nostro pianeta.