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immagine act now cartello per l'articolo sul climate change

Il climate change è ancora tra noi e il mondo digital ce lo ricorda

Il climate change rimane tuttora il problema principale per le generazioni future. Non lo diciamo noi, ma i dati delle organizzazioni internazionali in merito al riscaldamento globale e all’inquinamento di combustibili fossili.

Sicuramente in questi ultimi mesi la questione non è stata fonte di dibattito come poteva esserlo nel corso del 2019, ma solo perché il cambiamento climatico è stato oscurato dalla pandemia di Covid-19. E questo è legittimo, tuttavia non è una giustificazione se pensiamo che il climate change rappresenta uno dei principali fattori che, secondo la comunità scientifica, hanno contribuito alla diffusione del virus nel mondo.

Un forte trend che ha vissuto nel 2020 una piccola discesa, appunto, ma che rimane sicuramente in piedi grazie al mondo digital. Un settore che tanto toglie (in termini fiscali in Europa e legali in Usa, per intenderci: qui ne avevamo parlato attraverso un articolo sul colloquio tra i colossi del digital tech e il Congresso degli Stati Uniti) ma tanto da alle persone soprattutto in un mondo “condannato” (almeno per ora) al distanziamento sociale e al pericolo del climate change. 

Nel frattempo, però, nonostante un trend meno focoso, disastri ambientali e disagi nell’ecosistema attanagliano le popolazioni residenti nelle aree del pianeta più “disposte geograficamente a questo tipo di fenomeni. Vediamo per esempio gli incendi in California o le tempeste in Italia: il clima, in questo momento, è un vero e proprio terno al lotto e il meteo instabile è una delle tante conseguenze negative che derivano dal problema.

Ecco che, se non ci pensano gli utenti, a mantenere alta l’attenzione in merito ci pensa chi ha la possibilità di trasmettere un messaggio positivo attraverso strumenti che arrivino ovunque e in qualunque momento. Il digital è proprio il principale vettore di questo messaggio e probabilmente lo dovrà essere anche in futuro, oltre al comportamento consapevole e sostenibile che deve provenire da ognuno di noi.  

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Climate change: una questione nata per colpa nostra e resa un nemico grazie al web

Il climate change è stato sì un problema trasmesso alle giovani generazioni a livello globale grazie all’esempio di Greta Thunberg, ma il vero motore del movimento contro i cambiamenti climatici è stato proprio il web. I social media sono strumenti potenti che, se utilizzati in modo consapevole, possono diventare un’arma di valore per rispondere alle ingiustizie sociali e ambientali che vengono perpetuate ormai periodicamente a livello internazionale.

Non è un caso che, proprio l’adolescente svedese ha trovato linfa vitale nei social media e appoggio da parte di molti giovani del mondo attraverso le piattaforme digitali che le hanno permesso di diventare quella che conosciamo tutti ora. Il suo storytelling è ripartito lo scorso agosto attraverso Twitter, dove l’attivista ha annunciato di aver ricominciato la scuola.

My gap year from school is over, and it feels so great to finally be back in school again! pic.twitter.com/EKDzzOnwaI

— Greta Thunberg (@GretaThunberg) August 24, 2020

Un trend nato sul web ma cresciuto inevitabilmente nelle piazze delle città di tutto il mondo, grazie appunto ai messaggi condivisi dagli attivisti sui social media. Gli utenti, però, non sono i soli a voler utilizzare il digitale per trasmettere messaggi di incoraggiamento nel contrastare il climate change.

In questo senso, è recente la notizia della decisione di Google di investire nell’aiuto a 500 città a ridurre l’inquinamento. Una situazione di cui, infatti, se ne vogliono occupare anche i grandi colossi della tecnologia: il colosso di proprietà di Alphabet lo ha annunciato con un comunicato ufficiale lo scorso 14 settembre.  Con un post pubblicato alle 12 italiane sul blog ufficiale della compagnia, l’amministratore delegato Sundar Pichai ha anticipato che entro il 2030 l’azienda si impegnerà a operare 24 ore su 24, 7 giorni su 7, senza emissioni di carbonio.

“Renderemo disponibili 5 gigawatt di energia pulita, aiutando 500 città a ridurre le emissioni di carbonio e 1 miliardo di persone a fare scelte sostenibili”. […] 

“Entro il 2025 creeremo più di 20mila nuovi posti di lavoro, negli Stati Uniti e nel resto del mondo, nel settore dell’energia rinnovabile e nelle attività a essa collegate”.

Come ha spiegato il CEO, il primo passo sarà l’utilizzo di sola energia “carbon-free” in tutti i data center di Google e campus nel mondo: le strutture sono quelle che «alimentano i prodotti e i servizi cui le persone si affidano ogni giorno», con la conseguenza che, sempre secondo Pichai, «Ogni mail inviata su Gmail, ogni ricerca, ogni video visto su YouTube e ogni ricerca su Maps per trovare il percorso migliore utilizzeranno energia pulita in qualunque ora di qualunque giorno».

Un provvedimento che non è nuovo per Google, perché è solo il secondo dopo le azioni mirate all’eliminazione definitiva del carbonio nei processi lavorativi dei suoi centri.

Sempre secondo Pichai, le città creano il 70% delle emissioni nel mondo, e il piano Environmental Insights Explorer di Google “Ne aiuta già oltre 100 a tracciare e ridurre le emissioni di edifici e mezzi di trasporto e a massimizzare il loro utilizzo di energia rinnovabile: per questo l’obiettivo è quello di estendere questo strumento a 3mila località a livello globale e appunto impegnarsi anche ad aiutare oltre 500 città e governi locali a ridurre le emissioni di carbonio per un totale di 1 gigaton l’anno entro il 2030, rappresentante di più o meno l’equivalente delle emissioni di carbonio di un Paese come il Giappone”.

Quello di Big G è un primo importante passo verso una nuova fase della lotta al riscaldamento globale e al climate change, soprattutto dopo un periodo in cui il distanziamento sociale e lo stop della maggior parte delle attività produttive aveva trasmesso il falso messaggio di un mondo “più pulito”, considerato il fatto che la circolazione dei mezzi e degli esseri umani è inevitabilmente diminuita.

Un falso messaggio, si, perché se i mesi di marzo e aprile ci avevano regalato l’immagine di uno spiraglio di speranza con i contenuti virali di “una natura che si riappropriava dei suoi spazi”, quelli di maggio e giugno hanno deluso le nostre aspettative con la risalita della temperatura globale. 

Fra nuovi casi di “coral bleaching” sulla grande barriera corallina dell’Australia e lo sversamento di circa 20mila tonnellate di carburante in un fiume a nord di Norilsk in Siberia, al caldo record registrato in diverse parti del mondo, infatti, l’idillio è stato purtroppo una fotografia temporanea: secondo gli scienziati del Programma Copernicus (Global Monitoring for Environment and Security, un’iniziativa dell’Agenzia Spaziale Europea e della Commissione europea creata nel 2001 durante l’incontro di Göteborg) lo scorso maggio è stato il maggio più caldo degli ultimi 40 anni, con una temperatura media più alta di 0.6 gradi rispetto agli altri maggio dal 1981 a oggi. I 12 mesi fra giugno 2019 e maggio 2020, invece, sono stati più caldi di 0.7 gradi rispetto alla media, arrivando a eguagliare il periodo compreso fra ottobre 2015 e settembre 2016.