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The Donald secondo Michael Moore

The Donald secondo Michael Moore

È uscita ieri nelle sale la nuova produzione del documentarista statunitense: Fahrenheit 11/9.

Michael Moore esce di nuovo allo scoperto dopo l’ironico Where To Invade Next.

Il documentarista di Flint è stato ospite al Festival del Cinema di Roma per presentare il suo nuovo documentario dedicato alla controversa figura di Donald Trump e le elezioni avvenute nel 2016.

Non solo: oltre a The Donald, infatti, Moore ha deciso di rivolgere pesanti critiche a tutto il sistema politico e mediatico americano, colpevoli di essere i primi artefici di un sempre più debole meccanismo democratico.

Hillary e Bill Clinton, Barack Obama, sinistra, destra: Moore ne ha per tutti, e ne ha in modo diretto e senza tanti giri di parole.

Secondo lui, infatti, la democrazia è ancora un sogno da inseguire per quei milioni di americani che ogni giorno si sentono oppressi da un sistema legato più ad interessi economici e meno al bene della comunità.

Colpa di tutto ciò è la corruzione, che insieme a prospettive future incerte e complicità di una “sinistra incapace” è riuscita solo a concepire un’America povera e abbandonata.

Il regista, nel film, sfera un attacco anche ai network del suo paese. Quest’ultimi avrebbero contribuito a rendere la figura di Trump una vera e propria icona di massa, sottovalutando la sua pericolosità da tutti i punti di vista.

“Non lo hanno mai preso sul serio, hanno scherzato su di lui, lo hanno chiamato The Donald, trasformandolo in una star. Proprio lui, maschilista, prepotente, misogino, che spesso ha dichiarato di volersi fare volentieri la figlia nel caso la legge glielo avesse permesso, famoso per andare a letto con donne che poi dichiaravano alla stampa di aver fatto ‘il miglior sesso di sempre’.”

Ha commentato Moore intervistato a Roma.

“Con questa spazzatura i network hanno fatto soldi a palate. Quando ha proposto la sua candidatura alla presidenza, tutti hanno riso, il giorno dell’elezione il New York Times dava ancora la sua vittoria al 15% poiché chiuso all’interno di una bolla.
Fuori da New York, da Los Angeles, c’è l’America reale che lo ha votato in massa. È normale che accada questo quando distruggi la scuola, quando per accedere all’università bisogna chiedere un prestito di 150.000 dollari che ti perseguiterà fino ai 40 anni, quando lasci il controllo alle grandi corporazioni – interessate solo alla stupidità.”

Michael Moore.

All’interno di Fahrenheit 11/9 c’è una sequenza controversa in cui Moore paragona Hitler a Trump, prendendo un video del primo e sostituendo la voce con quella del secondo. Una mossa forte, determinata e decisa, che punta a trasmettere l’immagine di Trump come vero attentatore della democrazia.

Una democrazia che non ha il potere di autoregolarsi: una correzione del sistema, infatti, non è prevista.

Esso, secondo lui, è in pericolo di vita e il suo funzionamento dipende dai fattori che lo influenzano ogni giorno. Media, competitors, elettori, società civile: tutti elementi di un puzzle pronto ad essere composto ma tenuto in bilico su una mensola (e senza cornice).

Ma cosa differenzia i precedenti film di Moore con questo scenario mostrato nel 2018?

Nel documentario di Moore si può notare tutta la rabbia e la delusione di un regista che ha fatto della sua carriera una vera lotta contro i disvalori sociali ed economici che hanno caratterizzato gli Stati Uniti negli ultimi 20 anni.

Armi, guerra e sistema: tre elementi che hanno rappresentato un mondo oscuro da raccontare. I suoi film hanno sempre trasmesso immagini potenti e imponenti, ma allo stesso tempo ironiche e minuziose nel ricostruire alcuni passaggi chiave degli ultimi anni di storia americana.

Questa volta, però, corruzione, cittadini traditi e avanspettacolo sono stati accompagnati da disillusione e tristezza da parte del regista. Un’immagine delusa di un’America sporca.

Direttamente dallo Studio Ovale della Casa Bianca, c’è infatti una democrazia in pericolo che sta perdendo la bussola, trasformandosi in un soggetto da film dispotico.

Detto questo, il film di Moore non è di certo dispotico ma provocatorio: raccontare quello che è diventata la sua casa è l’unico compito, capirne le conseguenze è uno dei punti di partenza.