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foto di due ragazze che fanno smart working

Questo periodo può incentivare la cultura dello smart working in Italia?

Città deserte e misure preventive del Governo, psicosi collettiva e chiusura momentanea degli uffici e di alcune aziende. Quanto questa emergenza può aiutare l’Italia ad approcciarsi (o almeno iniziare a farlo) alla cultura dello smart working?

Come dimostrano chiaramente i dati, l’Italia è uno dei paesi in cui lo smart working è meno diffuso. Il motivo principale è, presumibilmente, è l’esistenza di una cultura professionale ancora lontana dai nuovi standard globali che stanno gradualmente imponendo una visione più aperta e fiduciosa nei confronti del lavoro da remoto.

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Nelle scorse settimane sono circolati moltissimi editoriali sul tema, tra cui quello di Bloomberg, che ha raccontato come questa emergenza avesse reso possibile “Il più grande esperimento di telelavoro in Cina” definendo lo smart working un vero e proprio punto di non ritorno sul lavoro del futuro.

Lo smart working all’estero

In Gran Bretagna il termine più diffuso è Flexible Working, e il paese è il primo ad aver introdotto una specifica legge in merito: approvata nel 2014, la Flexible Working Regulation prevede che tutti i dipendenti con anzianità di servizio almeno pari a 26 settimane abbiano il diritto di richiedere forme di flessibilità che i datori di lavoro possono rifiutare solo adducendo fondate motivazioni.

Anche nei Paesi Bassi, dal 2016, è in vigore il Flexible Working Act che, sul modello inglese, sancisce e regolamenta il diritto dei lavoratori a richiedere forme di flessibilità negli orari e luoghi di lavoro.

In Francia esistono una serie di decreti culminati nella recente riforma della Loi Travail del 31/8/2017. L’introduzione del lavoro da remoto non richiede più modifiche del contratto di lavoro, ma può essere definita ad hoc attraverso un accordo scritto o orale tra il datore di lavoro e il dipendente.

In Germania, nell’ambito del piano Industrie 4.0, il Ministero Federale tedesco del Lavoro e le Politiche Sociali ha pubblicato nel 2016 il documento “Arbeiten 4.0” (Lavoro 4.0) che raccomanda l’introduzione di modelli di flessibilità volti a di accompagnare la trasformazione digitale del mercato del lavoro. 

In Belgio infine, pur non essendoci specifiche normative, si è diffuso il concetto di New Ways of Working o New World of Working, con cui ci si riferisce all’adozione di nuove pratiche di lavoro che consentono di aumentare la motivazione, la soddisfazione e la produttività dei lavoratori della conoscenza.

E in Italia, invece? Attualmente, diverse aziende nazionali stanno incentivando i dipendenti a stare a casa o stanno addirittura chiudendo uffici e stabilimenti in via precauzionale. Ecco perché, inevitabilmente, le decisioni del governo (ma anche dei piani alti dei grandi e piccoli brand) possono svolgere il ruolo di “trampolino di lancio” verso le nuove frontiere dello smartworking.

Questo è il principale interrogativo: mentre l’economia nazionale è a forte rischio e ogni giorno, come spiegano le recenti stime, il Paese sta perdendo milioni di euro a causa delle misure ministeriali e regionali, lo smart working può davvero raggiungere un punto di svolta nel nostro paese? Ma, soprattutto, sarà questa emergenza a renderlo ancora più solido agli occhi del mercato italiano?

Nella maggior parte dei casi, quasi per definizione, le aziende più vicine ad un risvolto di questo tipo sono sicuramente le compagnie o agenzie tech e digital. Realtà che però, in ogni caso, erano già da tempo abituate all’eventualità di un rapporto lavorativo di questo tipo. Le attività svolte al loro interno, infatti, si prestano molto di più ad un rapporto da remoto, anche grazie ai vari tool di organizzazione del lavoro presenti sul mercato come Slack, Asana, Trello o Google Calendar. 

Altre tipologie di aziende, quindi, potrebbero trovarsi in difficoltà gestendo i propri dipendenti da remoto, considerata anche la mole di lavoro e le mansioni professionali differenti.

Nonostante questo, nel frattempo, per arginare l’impatto del Coronavirus sul sistema produttivo il governo ha previsto una serie di interventi per favorire lo smart working attraverso adempimenti destinati alle aziende.

Esso, infatti, può rappresentare una valida modalità di gestione dei dipendenti qualora svolgano compiti che non richiedono la presenza in azienda. Solitamente, lo smart working può essere attivato sulla base di un accordo tra impresa e lavoratore. Tuttavia, il decreto 6/2020 del Presidente del Consiglio dei Ministri, all’articolo 3, stabilisce che “nelle aree considerate a rischio nelle situazioni di emergenza nazionale o locale la disciplina contenuta negli articoli da 18 a 23 della legge 81/2017 può essere applicata in via automatica anche senza accordi individuali”. 

Apparentemente un bell’incentivo, quindi, con lo scopo di prevenire eventuali contatti diretti tra persone che lavorano nello stesso ambiente lavorativo. Si tratta di misure preventive che porteranno ad un’eccezione temporanea, oppure possiamo considerare questa fase l’inizio di una nuova cultura professionale? 

Allo stesso tempo, se scegliamo il secondo caso, il mercato del lavoro italiano si adatterebbe facilmente ad una svolta di questo tipo o quest’ultima andrebbe a scomparire gradualmente nel tempo? Forse è ancora un po’ troppo presto per dirlo, visto che questo periodo di emergenza è iniziato solamente da qualche giorno.

Lo smart working in Italia: altri possibili risvolti, nel concreto

Le nuove modalità di lavoro possono, inevitabilmente, ridurre le emissioni inquinanti (perché si ridurrebbero i trasporti) e “attrarre” nuovi settori o ambienti lavorativi come per esempio gli studi legali. Ecco, infatti, un caso in cui l’approccio digital si sta unendo in modo proficuo a uno dei lavori “più tradizionali” del nostro sistema: l’avvocato.

Secondo un recente articolo del Sole 24 Ore, in questi giorni c’è stata una sorta di “liberalizzazione” dello smart working per avvocati e segretarie legali, con stop alle trasferte e buoni taxi ai dipendenti per evitare gli spostamenti con i mezzi pubblici. Parallelamente, anche le linee telefoniche sono considerate dal quotidiano stesso “roventi” vista la grande percentuale di clienti da rassicurare ed assistere nelle loro questioni legali.

“La prima giornata di lavoro degli studi legali milanesi al tempo del coronavirus è passata così, con tanto Skype e zero riunioni in presenza in uffici, di fatto, semi vuoti” […] 

Valeria Uva, Il Sole 24 Ore

Ma, come spiega la stessa autrice, l’abitudine allo smart working sta invadendo anche altri settori, come quello finanziario.

“Per le migliaia di professionisti che affollano la piazza d’affari milanese il lavoro “online” è già una costante: i contatti con la rete di uffici internazionali, con clienti all’estero viaggiano già tutti in videoconferenza. «L’unica diversità è che da oggi la videoconferenza la applichiamo anche per parlarne con il collega che normalmente si trova al piano di sopra» rileva Simonetta La Grutta, partner dello studio di consulenza Grant Thornton responsabile del dipartimento People Hub”

Anche il centro direzionale di Milano ha dimostrato di credere in questa svolta. A City Life, per esempio, l’invito a ricorrere allo smart working è arrivato dalle torri Generali, Allianz e PwC, mentre nella zona di Porta Nuova da Unicredit, Aws, Microsoft e Google, portando avanti un modello già in corso da qualche anno. Ma ci sono anche altre realtà aperte in questi giorni al lavoro da remoto: Ibm, Intesa San Paolo, Sas, Luxottica, Enel, Eni, Snam, A2A, Pirelli, Saipem, Sky e addirittura il Comune del capoluogo lombardo.

Nonostante queste considerazioni e al di là dell’impennata di questi giorni (data soprattutto dalla contingenza di questo evento fuori dall’ordinario), e nonostante l’adozione dello smart working porti risultati positivi e documentati, c’è ancora molto scetticismo su questa modalità di lavoro. Una mancanza di fiducia che, dati alla mano, ha raccontato infatti un’ indagine condotta da Variazioni s.r.l., società di Mantova attiva da 10 anni che si occupa di politiche di conciliazione, consulenza, people management e welfare aziendale.

Posizione che è stata confermata anche in un recente articolo del Corriere della Sera, nel suo inserto “L’economia“, dove vengono esposte anche le ragioni degli operatori che hanno condotto la ricerca.

«Nella nostra esperienza, lo smart working in Italia continua a scontrarsi con un equivoco di fondo: parlare di lavoro agile non significa discutere di cartellini e orari di lavoro, ma di organizzazione aziendale, trasformazione digitale dei processi, sistemi di valutazione e, in ultima analisi, cultura aziendale. — ha commentato Arianna Visentini, fondatrice di Variazioni (insieme a Stefania Cazzarolli) e coautrice del libro Smart Working mai più senza —. Si tratta, di fatto, di un abilitatore dell’innovazione, di una piattaforma win-win capace di generare valore per l’azienda e per le persone. Resistere all’innovazione, in questo senso, equivale a generare costi materiali e immateriali, sia per l’azienda sia per le persone».

Emily Capozucca, L’Economia

Nelle scorse ore, però, si è aggiunto un ulteriore tassello: lo smart working è arrivato in punta di piedi anche nella pubblica amministrazione, con una direttiva governativa che invita a “potenziare il ricorso al lavoro agile” e “favorire la modalità telematica” per convegni e riunioni.